E’ difficile oggi sottrarsi, vivendo in quest’istituzione, alla sensazione che la fabbrica abbia solo spostato i suoi confini e soprattutto diffuso e reso insondabili le ragioni di una dispersione, insieme territoriale e culturale. Dalla dicotomia facoltà dipartimenti (legge n. 28 del 1982) oggi non si sa neanche dove…abiti il Politecnico. Dai centri interdipartimentali sino oggi ai nuovi poli di corso Marche, di Mirafiori, di via Boggio, il Politecnico si è smaterializzato. L’immagine che più si avvicina alla realtà, è quella non troppo rassicurante dell’Idra. Immagine sorretta da una filosofia unica: Il trasferimento di saperi applicati. Se così fosse, allora, forse aveva ragione Marco Gilli, quando reclamava per questa scuola il nome di università tecnica, non politecnica..Ma io voglio, in questo mio intervento restare, nell’ambito del trasferimento tecnologico e alle sue origini, alla fine degli anni trenta dell’Ottocento, a Parigi, quando la missione dell’Ecole Polytechnique muta da formazione delle classi dirigenti a formazione dei tecnici necessari al passaggio dalla protoindustria a quella che sarà chiamata la seconda industrializzazione. Le obbiezioni già allora erano due. C’erano due trasferimenti, prima di arrivare a questo dei saperi esperti, da affrontare.
Il primo era il trasferimento delle conoscenze nella didattica, il secondo il passaggio dalla ricerca e dai suoi enigmi alle pratiche professionali. Il saintsimonismo e la Revue Générale de l’Architecture et des Travaux Pubblics di Cesar Daly ne sono solo due esempi.Oggi questi due interrogativi si sono radicalizzati. La didattica, quella dei corsi di laurea che qualificano l’offerta didattica del Politecnico, si è sbriciolata, quasi come le specializzazioni cui abbiamo assistito soprattutto dopo l’applicazione della legge europea dei crediti. D’altronde sono saltati tanti presupposti di una didattica di qualità, in primis il rapporto docente studente (basta guardare, se si vuole, fuori casa, in Germania, come in Spagna, dove il rapporto non può superare nelle lauree specialistiche ,l’1 a 25). Forse il primo impegno dei nostri novelli Caronti dovrebbe essere quello di dirci quale formazione offriremo e a quali studenti e quali saranno gli strumenti per verificare se le promesse saranno mantenute.Il. secondo è anco più delicato, perché è troppo tempo che non ci si sofferma, è quella che un tempo si chiamava dicotomia tra ricerca pura e ricerca applicata. Per trasferire bisogna “detenere” saperi se non unici, certamente quasi unici e con una profonda concezione del tempo (passato e futuro), che solo la formazione a una “philosophy of inquire” può garantire. In che modo i candidati che si presentano saranno in grado di garantire che chi studia al Politecnico, chi si forma all’insegnamento, chi ne costituisce la colonna vertebrale in giro per il mondo, sia portatore di una cultura di un’indagine, laica, dubitativa, critica e aggressiva di fronte ad un mondo sempre più ideologizzato, dove persino le religioni stanno tornando ad essere un fattore identitario?
Sono domande che precedono l’esaltazione di innovazioni segmentate, delegate a istituti pur meritevoli, ma che certo non possono neanche affrontare problemi che riguardano la stessa identità della scuola in cui viviamo. Sarebbe bello e utile che a problemi così radicali, non pretendo oggi certo, si provasse a rispondere con un confronto leale e pubblico tra chi ambisce a rappresentarci tutti, condizione chiave di una vita democratica della nostra istituzione.
(Testo delI’intervento del Prof. Carlo Olmo nel corso dell’Assemblea elettorale in Aula Magna del 13 novembre 2023)

Carlo Olmo
Carlo Olmo è professore emerito del Politecnico di Torino.